Conoscere l'Orso - Sommario

<< indietro | avanti >>

L’orso e l’uomo

La specie nella preistoria e nella storia

L'orso delle caverne (Ursus spelaeus), simile all’orso bruno, ma più grande e massiccio, era molto diffuso durante l’ultimo periodo glaciale; era una specie essenzialmente erbivora, che utilizzava abitualmente le grotte come riparo, trovandosi così in competizione con l’uomo preistorico. L’aspetto poderoso e le grandi dimensioni di questo mammifero hanno fortemente influenzato l’immaginazione dell’uomo, fin dal paleolitico superiore: ne sono testimonianza varie raffigurazioni rupestri, graffiti su osso, e perfino statue d’argilla di grandezza naturale ricoperte con la pelle dell’orso ucciso, importanti forme di culto diffuse tra le popolazioni umane dell’epoca glaciale. Mentre alla fine dell’epoca glaciale, a poco a poco, scompariva l’orso speleo, ultimo rappresentante di una antica linea di orsi europei, si affermava nel Vecchio Continente l’orso bruno, Ursus arctos, specie di origine asiatica.
La sottospecie appenninica, Ursus arctos marsicanus, è presente nel territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, di cui è simbolo.
Nettamente separato dall’orso bruno europeo, sia a livello geografico che morfologico, l’orso bruno marsicano è una sottospecie molto ben caratterizzata. Nell’antico mondo romano l’orso era la fiera strappata dal suo ambiente naturale e utilizzata prevalentemente come simbolo di ferocia.
Negli spettacoli del Colosseo e di altre arene, oltre ai leoni e alle altre belve importate dall’Africa e dall’Asia, figuravano orsi, linci, lupi e stambecchi provenienti anche dalle Alpi e dagli Appennini. Il triste destino di questi animali era frutto di un intenso traffico, molto redditizio e assai ramificato in tutte le Province dell’Impero, anche le più lontane.
Dopo complesse battute di caccia, mirate alla cattura, gli animali venivano stipati in gabbie e trasportati su carri e su navi Rispetto a quanti morivano durante il viaggio, ed in seguito nei giochi circensi, ben pochi sopravvivevano allevati nei serragli.
Sono famose le orribili stragi nei circhi ai tempi degli imperatori più noti: Traiano, ad esempio, per festeggiare le sue vittorie nella Dacia nel 107 d.C., fece uccidere, in 123 giorni, ben 11 mila animali selvatici. Si narra che l’imperatore Caligola, in un giorno, fece liberare nell’arena quattrocento orsi bruni facendoli combattere contro cani e gladiatori; durante il principato dell’imperatore Probo (276-282 d.C.) venne allestito nel circo un vero e proprio bosco artificiale in cui furono liberati cento orsi, mentre in un altro spettacolo ne sacrificò trecento.
Gordiano I (238 d.C.), però, pare che abbia superato tutti riuscendo a mettere insieme mille orsi, duecento cervi, cento capre selvatiche, centocinquanta cinghiali, duecento stambecchi e duecento caprioli tutti provenienti dalle foreste italiane ed europee.
Le superbe e varie rappresentazioni artistiche che ci illustrano l’orso come simbolo di forza e come belva combattente, evocano le storie raccontate dai numerosi cronisti e storici dell’epoca. Assieme a tanti altri animali gli orsi figurano in mosaici, bassorilievi e pitture che ci raccontano, con grande realismo e suggestione, di scontri all’ultimo sangue, così voluti da una società che aveva eletto la morte a forma di spettacolo.
Ma non solo di morte si tratta, attraverso magnifiche piccole sculture alcuni artisti del mondo romano pongono l’orso in uno scenario diverso, tra il domestico e il divino, come negli antichi miti celtici. Artio, la dea celtica della caccia e dell’abbondanza, è rappresentata in questa scultura di bronzo proveniente da Muri, nei pressi di Berna (nome che significa orso) in Svizzera.
La scultura rappresenta un grande orso, dietro il quale c’è un albero, di fronte ad una donna seduta su un carro.
La donna sembra tenere della frutta sul suo grembo, che serve forse a sfamare l’animale.
Sul basamento su cui poggia la scultura vi è una iscrizione: Deae Artioni/Licinia Sabinilla, cioè “Alla dea Artio (o Artionis), da Licinia Sabinilla”.
Il nome di questa dea deriva dalla parola gallica artos, cioè orso.
Nell’Alto Medioevo, quello tra l’uomo e l’orso è narrato talvolta come un rapporto quasi umano improntato alla convivenza pacifica, alla spartizione degli spazi e dei frutti. Si narra, nella “Vita di Colombano”, che il Santo, nel suo eremo tra i boschi si nutriva esclusivamente di frutti selvatici. Giunse però un orso, il quale cominciò ad alimentarsi di tali frutti mettendo in pericolo la stessa sussistenza di Colombano. Egli, quindi, comandò all’orso che da allora in poi si accontentasse della metà del cespuglio.
La belva, prodigiosamente obbedì.
Nei “Dialogi” di Gregorio Magno, si narra dell’eremita Fiorenzo che, rimasto solo nel suo eremo tra i boschi dell’Umbria, mal sopportando quella solitudine, chiese a Dio di mandargli una qualche compagnia; ed ecco che immediatamente sopraggiunse un orso.
Poiché c’erano alcune pecore senza custode, Fiorenzo chiese all’orso di portarle al pascolo e di essere sempre di ritorno per l’ora del pasto: o a “sesta” o a “nona”, secondo gli obblighi liturgici. Durante il Medioevo l’abbandono dei terreni bonificati e delle estese coltivazioni di pianura portò nel tempo alla cosiddetta “reazione selvosa”: lentamente i boschi ebbero il sopravvento sui territori che erano stati nei secoli precedenti strappati alla foresta.
Il ritorno di questi “nuovi boschi” consentì alla fauna di rigenerarsi e propagarsi, riconquistando a sua volta l’ambiente naturale originario: cinghiali, uri, lupi, cervi ed orsi abitavano la selva divenendo sempre più spesso competitori nei confronti dell’uomo e di conseguenza cacciati e perseguitati.
Il bosco, per secoli considerato un luogo mistico che ospita divinità e ricco di risorse, divenne rifugio di oscure presenze e spiriti pagani spesso manifesti attraverso gli animali più terrifici.
E così l’orso, creatura di grande forza e coraggio, signore della vita misteriosa che alberga nella foresta, da questa veniva nuovamente strappato, catturandolo con trappolaggi simili a quelli dei secoli precedenti, per essere spesso costretto a battersi con altre fiere oppure a sbranare uomini.
La terribile pratica del combattimento tra animali, crudele eredità degli antichi giochi circensi, attraversò tutto il Medioevo, proseguendo oltre il Rinascimento fino alla fine del ‘700, quando i combattimenti tra cani, orsi e tori erano ancora legali.